Marc Minkowski: armonia e pace nel Mozart sinfonico
Lingotto musica ha chiuso la sua stagione con le ultime tre sinfonie composte dal grande salisburghese, come altrettante tessere di un mosaico interiore
Anni fa Piero Buscaroli, critico passatista, si avventurò ad affermare che nelle sinfonie Franz Joseph Haydn era più bravo di Mozart. Rispettosi della sua memoria, gli lasciamo la responsabilità di tale giudizio. Mi è venuto in mente l’altra sera al concerto di Lingotto Musica, che ha chiuso in bellezza la sua stagione con le tre ultime sinfonie di Mozart, la 39 in mi bemolle maggiore KV 543, la celebre 40 in sol minore KV 550, e la maestosa 41 “Jupiter” in do maggiore KV 551. Come ricorda il professor Giorgio Pestelli nel programma di sala, le sinfonie composte da Mozart e Haydn tra il 1786 e il 1795 “ultimo stadio dell’edificio sinfonico del Settecento” sono intrecciate di influenze reciproche, mutui omaggi. Ma non stilerei classifiche e comunque, con tutto il rispetto, non a favore del maestro di Rohrau.
A fugare eventuali incertezze, è stato al Lingotto il direttore e fagottista Marc Minkowski, che con i suoi Les Musiciens du Louvre, da lui stesso fondati ad appena vent’anni, nel 1982, è oggi tra gli interpreti più accreditati a livello mondiale del repertorio barocco, ma non solo, con strumenti originali e prassi storicamente informata.
Le tre ultime sinfonie mozartiane sono state tutte composte nello stesso anno, anzi nella stessa estate, tra il giugno e l’agosto 1788, in un impeto creativo incontenibile. Nei tre anni che gli restano da vivere Mozart non tornerà mai più su questo genere di composizione. I tre capolavori ascoltati sono dunque da considerare una sorta di summa del suo pensiero sinfonico, dove sfruttando le diverse tonalità Mozart compone una sorta di mosaico interiore (Nikolaus Harnoncourt parlava addirittura di un’unico grande oratorio strumentale), o percorso creativo, unificato da nuclei tematici, analogie tecniche e ispirazione complessiva.
Altro che improbabili graduatorie: Mozart ha toccato qui uno dei massimi vertici non solo della sua produzione, ma in generale della forma sinfonia, contribuendo in modo determinante a definirne il moderno significato di brano orchestrale di ampio respiro, diviso in tre o più movimenti, che troverà in Beethoven il sigillo definitivo. In passato infatti il termine aveva designato le forme più disparate, in genere un brano strumentale introduttivo di opere, come in Monteverdi, o associato ad altre forme musicali.
Minkowski ha presentato ogni pezzo con eleganza e simpatia, in perfetto italiano, con un accorato e quanto mai opportuno richiamo al messaggio di armonia e di pace contenuto nella musica di Mozart. Ideali di armonia e pace che ricordano direttamente l’influenza della cultura massonica sul compositore. E’ infatti noto che il giovane Amadé era in contatto con questi ambienti già nella natia Salisburgo. Trasferitosi a Vienna nel 1781, tre anni dopo era iscritto ufficialmente alla loggia Zur Wohltätigkeit (Alla beneficenza), e da allora fino alla morte rimase sempre legato alle logge, che gli ispirarono cantate e musiche e lo stesso Flauto Magico. Secondo Minkowski dunque, le tre sinfonie s’ispirano ad altrettanti elementi fondamentali dei quattro codificati dai filosofi della natura, e ripresi della cultura massonica: l’acqua la 39, il fuoco la 40, la terra la 41: acqua e fuoco vedi caso sono due delle prove iniziatiche nel Flauto Magico.
Mancherebbe l’aria, ma non è il caso di sottilizzare. Non conosciamo esattamente le reali motivazioni di Mozart, a parte la sfida intellettuale di cimentarsi esemplarmente nel genere sinfonia. Di sicuro sappiamo che le tre composizioni divennero famose solo dopo la sua morte, e non ci sono prove che egli stesso abbia potuto ascoltarle eseguite mentre era in vita.
Minkowski, che è anche accreditato filologo, nel 2006 ha registrato con i suoi Musiciens alla Maison de la Culture di Grenoble, dove il gruppo ha la sua residenza, le sinfonie 40 e 41, per un CD Archiv, etichetta specializzata di Deutsche Grammophon, rimasto di riferimento. All’Auditorium del Lingotto ha scelto una peculiare disposizione delle sezioni strumentali, che non sappiamo se fosse quella del CD, ma è probabile: violini primi a sinistra, violini secondi a destra, viole e violoncelli al centro e due contrabbassi alle estremità laterali.
Ne è uscito un colore orchestrale molto particolare, una forma del suono di particolare trasparenza e nitore, con le voci degli archi ben scolpite, e il sostegno armonico plasmato vigorosamente da legni e ottoni e sostenuto dai bassi laterali. Superba la qualità tecnica dei Musiciens: equilibrio perfetto tra le sezioni strumentali, fraseggio ampio e omogeneo nelle dinamiche, assoluta perfezione della puntualità ritmica. Impeccabile l’intonazione dei legni, e per quanto si può anche degli ottoni naturali, trombe e corni, sui quali è praticamente impossibile non sbagliare, anche a questi livelli sommi di esecuzione: infatti è accaduto, ma nessun rimprovero.
Pienamente restituita l’arte combinatoria mozartiana. L’apparente levità all’orecchio, la spontaneità melodica che guidano la sua mano sul pentagramma in questi tre brani debbono fare i conti con un’intensità e uno sviluppo di suono che non sapremmo come meglio definire se non drammatici, quasi teatrali, e che Minkowski rende con il vigore che lo distingue..
Una potenza interpretativa che risalta subito molto bene nell’Adagio iniziale della 39, quasi händeliano, a suon di timpani, ma che mostra un po’ la corda nei passaggi più meditativi, come il successivo Allegro e nel Minuetto, dove si ha l’impressione che siano in parte sacrificate la cantabilità e la necessaria espansione lirica. Diciamo che se l’elemento costitutivo della 39 dev’essere l’acqua, ebbene il liquido appare a tratti un po’ denso, pur sempre di fronte a un respiro orchestrale di ammirevole ampiezza e a un indefettibile rigore di lettura.
Qualche rilievo anche nella 550/40, celeberrima, tanto che nel 1971 fu registrata in versione pop dall’argentino Waldo de los Rios, diventando presto una hit nelle classifiche europee. La sua ritmica incalzante si presta a una lettura pop-rock ante-litteram, ma è un’orecchiabilità apparente. L’assenza di trombe e timpani esprime piuttosto una profonda interiorità, una tensione incessante tra la consapevolezza angosciosa dell’animo e un argine severo di ordine etico. I tempi staccati da Minkowski sono però così veloci che sembrano non lasciare spazio ad alcun indugio introspettivo. Anche un altro storico interprete come Frans Bruggen, con la sua Orchestra del XVIII Secolo, non scherzava quanto a metronomo, ma qui siamo forse ancora oltre, con una dinamica galoppante, che rischia di sacrificare, soprattutto nei movimenti successivi, la dimensione elegiaca. D’altra parte se questa è la sinfonia ispirata al fuoco, come ha premesso Minkowski, non ci si poteva aspettare nulla di meno. Sia come sia, il cesello del maestro lavora sempre alla perfezione sui più minuti dettagli, su un fraseggio splendente e mutevole, d’inesauribile ricchezza, dando la dimensione autentica di cosa sia un’interpretazione mozartiana meditata. Poi ognuno può formarsi il suo giudizio.
Pienamente “in parte” infine Minkovski e il suo gruppo nella Sinfonia 41, detta “Jupiter” perché percorsa da un’olimpica grandezza degna del capo degli dei: l’avrebbe battezzata così, secondo le ipotesi più accreditate, l’impresario e musicista Johann Peter Salomon (1745-815).
Se nella concezione del direttore, Mozart esprime un’energia tellurica, qui ci siamo in pieno. L’attacco quasi bellicoso del primo movimento Allegro Vivace è un inquietante squillo che ricorda l’irrompere dello spettro del Commendatore nel finale del Don Giovanni. Qui c’è ovviamente una diversa drammaticità, stemperata dal tono più lieto del secondo tema, ma questa energia ha in Minkowski un interprete coerente, che si mantiene tale anche nei passi successivi, in una relazione complessa tra la forma-sonata e il contrappunto bachiano.
Si passa così alla luminosità pacata del pensoso Andante Cantabile, all’agilità del “Menuetto” e alla levità quasi giocosa del Trio, per arrivare al culmine nel movimento finale Molto Allegro, un grandioso fugato, costruito su un motto gregoriano di quattro note, dove Mozart realizza un’imponente costruzione polifonica, ai vertici dello stile classico. La mai esibita complessità mozartina trova pieno riscontro nella direzione di Marc Minkowski, dove il rigore più severo si coniuga con la naturalezza della vera classe, senza ombra di compiacimento od ostentazione. Nel suo gesto la precisione maniacale viene dissimulata dal brio creativo, a volte il maestro parigino si china fino a terra con la corta bacchetta, per un pianissimo, altre volte mimando con le due braccia violino e archetto simula un’ampia arcata per ottenere l’espansione sonora desiderata, tutto senza parere, come un gioco amabile, un diletto anche per gli occhi.
Alla fine, tra gli applausi scroscianti, Minkowski, dopo un ultimo commovente appello alla pace sull’onda della bellezza della musica, ha regalato un bis all’altezza della magnifica serata, memore del suo paese d’origine: l’ “Entrée de Polymnie” dall’opera Les Boréades di Jean-Philippe Rameau. Secondo lui, il più grande compositore di Francia, e se lo dice Minkowski...
En parlant de ça, Les Boréades ha una storia curiosa, composta nel 1763 non andò mai in scena ai suoi tempi, e la prima rappresentazione avvenne solo nel 1982 al Festival di Aix-en-Provence. Fu poi ripresa nel 2003 a Versailles. Modestissimo suggerimento al sovrintendente e al direttore artistico del nostro Teatro Regio: nella loro apprezzabile esplorazione dell’opera francese, perchè non pensare a questo titolo tanto fascinoso, mitologico e danzante, per un rilancio di grande originalità?
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