Il groviglio referendum: perché andrò comunque a votare
Come penso la maggioranza degli Italiani, mi sto interrogando sui cinque referendum di domenica e lunedì: un groviglio fra tanti fili diversi.
Il primo filo è quello istituzionale: il voto, di qualunque natura, è il simbolo stesso della democrazia, fin dai tempi di Atene e di Clistene, V-VI secolo avanti Cristo (anche se allora votava solo l’élite). Non andare a votare significa non solo venire meno a un dovere, ma anche rinunciare a un diritto fondamentale. Per questo trovo criticabile la scelta annunciata dalla Presidente del Consiglio Meloni, che andrà al seggio ma non ritirerà le schede. Mi sembra una posizione ipocrita, per salvare la capra del ruolo istituzionale e i cavoli della linea politica della sua maggioranza. E’ comunque un non-voto, e non capisco dove stia la differenza con chi al seggio proprio non ci va. Forse la differenza sta, come ha osservato qualcuno, nell’oggettivo effetto-propaganda dell’immagine di Meloni al seggio che non ritira le schede: equivale a gridare (illegittimamente in un giorno di voto) “fate come me”!
Lasciamo stare poi che questo pronunciamento sia avvenuto il 2 giugno, festa della Repubblica italiana, che nacque in quel giorno del 1946, in seguito proprio al primo referendum indetto nell’Italia uscita dal fascismo. Gli Italiani, e per la prima volta anche le Italiane, furono chiamati con quel referendum, detto infatti istituzionale, a scegliere la forma di stato in cui volevano vivere. Com’è noto, bocciarono la monarchia, fondando l’Italia in cui viviamo. Dunque la data poteva essere scelta meglio. Si aggiunga che la crisi delle democrazie occidentali di cui si parla e straparla è legata in buona parte alla cosiddetta disaffezione al voto, alla diserzione, per meglio dire, dalle urne. Ogni sincero democratico dovrebbe ricordare sempre che senza il voto le nostre società si pongono su un terreno franoso, che slitta più o meno lentamente, verso forme più o meno manifeste di dittatura. Andare al seggio elettorale, anche per il referendum, è il gesto fondamentale per l’esercizio di quella sovranità che come dichiara il primo articolo della Costituzione appartiene al popolo. Non votare significa abdicare alla sovranità e scegliere la sudditanza.
Un capo di governo o di stato che sia (ricordiamo il non felice precedente dell’allora presidente della Repubblica Napolitano che si espresse apertamente per l’astensione sul referendum cosiddetto delle trivelle nell’aprile 2016), un uomo delle istituzioni NON può, o non deve, pronunciarsi apertamente per il non-voto.
Ciò detto, nel caso del referendum, il cittadino ha diritto di esprimere il proprio dissenso sull’essere costretto ad affrontare problemi legislativi e tecnici assai complessi, che in base al principio di rappresentanza vorrebbe invece che fossero essere risolti dai legislatori. Quindi esiste un diritto all’astensione, cioè al non-voto, sancito implicitamente dall’obbligo di un quorum, cioè di una maggioranza semplice dei votanti, per rendere valida la votazione referendaria. Leggo dalle statistiche che su 72 referendum abrogativi (che cioè, come i cinque in questione, chiedono di annullare una legge in vigore) indetti nella storia della repubblica, il quorum è stato raggiunto solo in 39 casi, un po’ più della metà. L’astensione dal voto referendario è senza dubbio una scelta legittimata dall’ordinamento. Ma questo diritto riguarda il singolo elettore non i rappresentati delle istituzioni.
Qui dipaniamo un altro filo, più sottilmente politico. Se Governo e maggioranza si sbracciano a proclamare il loro dissenso sui referendum voluti dalla CGIL, e sostenuti dalle opposizioni, PD di Elly Schlein in testa, la risposta politica di chi la pensa diversamente non può che essere di andare a votare in massa. E’ il modo più efficace per affermare e rimarcare una visione politica diametralmente opposta, non solo e non necessariamente sull’abrogazione delle leggi sotto accusa, ma anche più in generale sulle prevalenti politiche, o non-politiche, per il lavoro. Tutti coloro che pensano che il Governo attuale sia su questo inadempiente devono andare a votare per sottolineare l’esigenza assoluta di ripensare tali politiche, guardando anche ad aspetti che non sono oggetto di quesito referendario. Ad esempio l’inaccettabile povertà delle buste paga e l’assenza di un salario minimo garantito. Suonare la sveglia perché si smetta di giocare con statistiche mendaci sui livelli di occupazione quando in generale il lavoro dipendente mai come ora è stato tanto vilipeso, mercificato e funestato dagli incidenti mortali. Il lavoro non è solo un asset economico, ma una forma insostituibile di espressione e di affermazione del singolo nella società (anche questo sta nella Costituzione), è un concetto da avere ben presente andando alle urne.
I fili restanti, i più aggrovigliati, riguardano il merito dei cinque referendum. Nell’ordine: Licenziamenti illegittimi (scheda verde), Appalti e sicurezza sul lavoro (scheda rossa), Indennità nelle piccole aziende (scheda arancione), Causali per i contratti a termine (scheda grigia), Cittadinanza dopo 5 anni (scheda gialla). Tranne il quinto sono tutti quesiti di rilievo tecnico e di non facile comprensione in tutte le loro implicazioni. Però bisogna dire che TV e giornali si sono molto impegnati per aiutarci a capire. Personalmente, ho maturato una sola certezza, e riguarda appunto il quinto quesito. Il SI convinto e incondizionato all’abrogazione della legge del 1992 sulla cittadinanza italiana che prevede un tempo minimo di residenza nel nostro paese di 10 anni. Tornerebbe quindi in vigore la legge precedente, quando si diventava cittadini italiani dopo metà tempo di attesa, cinque anni, come avviene in molti altri paesi (Francia, Germania, Svezia, eccetera) e come dettano buonsenso, esigenze produttive e previdenziali, e semplici principi di umana solidarietà. Su questo non ci sono dubbi, SI convinto e incondizionato.
Sugli altri quesiti ho ascoltato e letto molti pareri e giudizi autorevoli, e sicuramente oggettivi, come quelli di Tito Boeri e Ferruccio De Bortoli che hanno espresso perplessità. Le stesse perplessità condivise peraltro da una parte del PD, e ovviamente da Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, il padre del cosiddetto Job Act, ora sotto accusa. Non credo che scioglierò le perplessità di qui a domenica.
Un’altra certezza senza riserve è però che domenica andrò comunque a esercitare pienamente il mio diritto/dovere di voto. Se tutti faremo così, come mi auguro che succeda, e se sarà raggiunto il quorum, questo, indipendentemente dall’accoglimento dei quesiti, suonerà per il Governo come un segnale forte e chiaro sul posto da riservare finalmente nell’agenda politica a leggi eque e coraggiose per la riforma del mondo del lavoro. Che resta una delle emergenze più gravi nella nostra povera Italia, magari occupata in teoria, ma povera e sfruttata di fatto in tanti, troppi casi.